
VINI D’ORO E VINI D’ARGENTO
“Voi (italiani) avete uve d’oro e fate vini d’argento, noi (francesi) uve d’argento e vini d’oro»
Un’affermazione proferita da René Engel, grande vignaiolo borgognone, di fronte allo stupore che un calice del suo Vosne Romanèe aveva suscitato in Gino Veronelli, forse la figura più importante nella storia del vino italiano.
Una metafora di una semplicità pari solo alla profondità del solco che lascia nella coscienza di chi l’ascolta.
La data dell’incontro? 1956. Da allora di acqua ne è passata sotto i ponti, e ancor più vino è stato versato nei calici, ma possiamo davvero dire che le cose sono cambiate? Dove eccelle la Francia, e dove pecca l’Italia?
L’argomento è vasto e le risposte possono essere pressoché infinite, frutto di intrecci storici, politici, sociali, economici, nonché ovviamente di scelte diverse in vigna prima, e in cantina poi.
Ma, tra i numerosi fattori che hanno decretato il primato qualitativo francese (il prezzo medio al litro dei vini italiani esportati è circa 2,7€, quello dei vini francesi 5,8€), quello che mi è più caro è senz’altro quello della comunicazione.
Si, perché mentre le etichette francesi costituiscono per un consumatore mediamente evoluto un primo strumento per la valutazione della qualità del vino e di comparazione con altri prodotti della stessa denominazione, in quelle italiane vige il caos.
Le maggiori denominazioni francesi hanno sistemi codificati per gerarchizzare la qualità dei loro vini, sistemi legati indissolubilmente alle caratteristiche peculiari dei rispettivi terroir. Esempi? In Borgogna la Cote de Nuits, celebre per i suoi vini rossi da Pinot Nero, è tagliata dalla statale nazionale N74. Mediamente, i vini più interessanti provengono dal versante sinistro della statale, dove i vigneti hanno una disposizione stratificata che ne rispecchia la qualità. Infatti, salendo lungo le colline dalla N74 prima troviamo le appellazioni Bourgogne, poi i Village, i Premier Cru, i Grand Cru, summa maxima della qualità del Pinot Nero; infine nuovamente i Village. Abbastanza facile da ricordare, no?
Le classificazioni secondo la scala dei cru, con qualche lieve variazione, vigono anche nella Champagne, a Bordeaux, in Alsazia, e sono ormai state assorbite dal mercato, grazie anche alla loro storicità e relativa immobilità: le classificazioni di Medoc e Sauternes sono del 1855, quella della Champagne è del, 1911, quella di St-Emilion è del 1954, mentre in borgogna resiste addirittura da circa 2 secoli, e ognuna di esse è stata rivista pochissime volte.
E in Italia? Beh, a noi non piacciono le classifiche, forse per preservare equilibri politici e non scontentare nessuno…
Qualche passo in avanti è stato fatto da alcune denominazioni importanti, grazie alle tanto discusse zonazioni: Barolo e Barbaresco sono stati divisi rispettivamente in 181 e 66 MGA (Menzioni geografiche aggiuntive) solo nel 2010, nel Chianti Classico qualcosa ha cominciato a muoversi, mentre in zona Montalcino c’è ancora un po’ di timidezza, anche se l’illustre penna di Kerin O’Keefe ha tracciato nel 2012 una prima divisione in cinque sottozone, corrispondenti ad altrettanti frazioni del comune.
Ma la zonazione non può bastare, se manca un secondo, fondamentale tassello: lo storytelling.
Se infatti l’avventore di un’enoteca o un ristorante può facilmente conoscere quale possa essere il gap qualitativo tra Premier Cru e Grand Cru, lo stesso si può dire, per esempio, tra un Barolo Brunate e un Cannubi, o tra un Barbaresco Santo Stefano e un Albesani? A parte uno sparuto gruppo di appassionati e operatori del settore, non credo. E allora qui la differenza la può fare solo una lunga, costante, assidua opera di formazione e comunicazione da chiunque abbia l’onere e l’onore di fare da intermediario con il fruitore del prodotto.
Ora che abbiamo sempre più vini d’oro, non trattiamoli più come vini d’argento!

MARCO CURZI
Nato a Cesena nel 1988, annata dichiarata poi come eccezionale per molte denominazioni.
Romagnolo DOC, appassionato di marketing, comunicazione e strategia aziendale, è stato folgorato dal dio Bacco nel 2015, grazie ad un corso da sommelier regalatogli dagli amici per la laurea in Economia Aziendale presso l’Università Commerciale Luigi Bocconi (lo studio allora serve a qualcosa!).
La passione per il vino è poi diventata presto patologia, fino a mettere a disposizione le sue competenze per parlare e scrivere di vino ad ogni occasione, soprattutto le meno remunerate.