
SULL’IDENTITÀ DI UN TERRITORIO
Autòctono agg. e s. m. – 1. Detto, propriamente, di quelle popolazioni che, per essere stanziate in un determinato territorio da epoca assai remota, si ritenevano nate dalla terra medesima. (Fonte: Treccani.it)
Sostituite il termine “popolazioni” con “vitigni”, ed il gioco è fatto.
Ma a quanto tempo corrisponde quella vaga “epoca remota”? In Italia la viticoltura ha radici antiche, e verosimilmente la stragrande maggioranza degli oltre 500 vitigni coltivati lo sono da decenni, e quindi sarebbero tranquillamente imputabili come autoctoni.
E qui casca l’asino: il termine che dovrebbe sancire il legame di un vitigno ad un territorio, e far sì che ne diventi il portabandiera nel mondo del vino, viene svuotato di significato.
E allora quale chiave di lettura può adottare uno specifico territorio considerato “minore” per emanciparsi e differenziarsi, uscendo dal guscio degli eterni confronti con altre realtà, considerate più prestigiose?
Cito due territori che mi stanno particolarmente a cuore, perché hanno dato i natali a tutti i componenti della mia famiglia: la Romagna e Pesaro-Urbino.
“Romagna e Sangiovese” cantava Raoul Casadei, il Re del liscio. Il legame tra le due parti è da sempre indissolubile, e foriero di vini di frutto pieno, corpo e titolo alcolometrico, spesso un po’ sopra le righe, soprattutto se confrontati con la freschezza del Sangiovese del Chianti Classico, o dell’eleganza di quello di Montalcino. Sono proprio questi i paragoni scomodi che, insieme a una percezione di territorio “da cantine sociali”, di rese per ettaro astronomiche e di eccessivo utilizzo del legno nelle versioni Riserva, hanno penalizzato quei produttori che fanno grande qualità, e che sono sempre più numerosi e preparati.
E allora perché non puntare su vitigni “esclusivi”?
In Romagna ci sono tanti vitigni non presenti altrove, i quali, se curati e vinificati con attenzione, portano talvolta a grandissimi risultati: l’Albana, di buona freschezza e talvolta leggermente tannica in versione secca, e che da passita può arrivare a rivaleggiare con i Sauternes, il Famoso (bacca bianca) e il Centesimino (bacca nera), entrambi semi-aromatici, l’uva Longanesi, che spesso viene fatta appassire e vinificata secca in stile Amarone, per chi ama vini più tannici e dal corpo imponente. Sui colli riminesi viene coltivata da secoli (la prima citazione scritta è datata 1378 d.c.) la Rebola, che poi si è scoperta essere il Grechetto gentile presente anche in Umbria e sui colli bolognesi, e che offre vini bianchi voluminosi, freschi e rotondi, con un finale tipicamente ammandorlato; vini che reggono l’invecchiamento in maniera impressionante.
Eppure, benché in termini di produzione questi vitigni stiano guadagnando pian piano terreno, non costituiscono minimamente il fulcro della comunicazione delle denominazioni che li ospitano.
A tal proposito mi permetto di citare come best practice il caso di una denominazione ancora (per poco) sconosciuta ai più: il Bianchello del Metauro DOC, a base di Biancame, prodotto in 18 comuni della provincia di Pesaro-Urbino.
Si tratta di una denominazione che ha festeggiato 50 anni nel 2019, ma che solo negli ultimi tempi è salita alla ribalta grazie a “Bianchello d’Autore”, un consorzio che riunisce nove storici produttori, che hanno saputo anteporre il “fare gruppo” al proprio ego, cosa che manca tantissimo nell’Italia del vino (e non solo).
Grazie ad una costante crescita qualitativa dei prodotti, eventi in Italia e all’estero e una comunicazione social semplice ma ben fatta, il Bianchello del Metauro è uscito dall’anonimato e si presta ad aumentare la sua presenza sulle tavole dei ristoranti della riviera adriatica.
Vitigni “esclusivi” coltivati e comunicati da gruppi di vignaioli seri, talentuosi e che giocano di squadra…possibile che sia così semplice la ricetta per fornire una precisa identità ad un territorio?

MARCO CURZI
Nato a Cesena nel 1988, annata dichiarata poi come eccezionale per molte denominazioni.
Romagnolo DOC, appassionato di marketing, comunicazione e strategia aziendale, è stato folgorato dal dio Bacco nel 2015, grazie ad un corso da sommelier regalatogli dagli amici per la laurea in Economia Aziendale presso l’Università Commerciale Luigi Bocconi (lo studio allora serve a qualcosa!).
La passione per il vino è poi diventata presto patologia, fino a mettere a disposizione le sue competenze per parlare e scrivere di vino ad ogni occasione, soprattutto le meno remunerate.